Danni da ungulati selvatici

Cervo3Danni da ungulati selvatici (Sherwood n.155 LugLio-Agosto 2009)

Le riflessioni proposte sono maturate al termine di una gita di studio sull’Appennino pratese effettuata nell’ambito del corso di Selvicoltura (Corso di laurea in Scienze Faunistiche dell’Università di Firenze), con la collaborazione del prof. Gianluca Giovannini e del dott. DaviDe Pozzi. Tali osservazioni sono comunque estendibili, purtroppo, a molte aree boscate del territorio italiano. I cedui quercini dell’Appennino pratese sono un ottimo punto di partenza per affrontare il discorso sui danni da ungulati.

I cedui in questione presentano la fisionomia tipica dei boschi soggetti a forte pressione alimentare da parte dei selvatici: le matricine sono in gran parte scortecciate, mentre le ceppaie si presentano come cespugli bassi e densi, a causa del morso ripetuto dei cervi.

Vale la pena di riflettere sull’origine dell’emergenza, sulle possibili vie d’uscita e sul ruolo che possono svolgere, nella soluzione del problema, i tecnici forestali e i politici. Le considerazioni che seguono non si riferiscono a casi particolari, bensì al territorio nazionale, in buona parte interessato dal problema.
Innanzitutto è necessaria una precisazione terminologica per quanto riguarda il cosiddetto “danno”. Non tutti infatti sono d’accordo con l’adozione di questo termine, che non renderebbe giustizia alle sacrosante esigenze alimentari dei selvatici. Personalmente sono d’accordo sul fatto che si possa parlare di consumo, a patto però che ci si riferisca a una situazione prossima alla naturalità: se, per esempio, in una foresta vergine centroeuropea, uno-due cervi distribuiti su 100 ha fanno colazione a base di piante erbaceoarbustive,
latifoglie arboree e abete bianco, è corretto parlare di consumo alimentare. Se, al contrario, i cervi diventano 10, pare ovvio parlare di danno, per lo stesso motivo per cui, se invitassi a cena una persona, potrei parlare di consumo nel caso la persona in questione si limitasse a fare una bella mangiata, mentre
avrei diritto di parlare di danno qualora si facesse accompagnare da una decina di amici che mi saccheggiano il frigorifero, la dispensa e che, magari, sollecitati da un abnorme appetito, mi mangiano pure il gatto.
Si tratta dunque di riconoscere un’anomalia: quali che siano le cause del fenomeno (introduzioni fatte a cuor leggero, scomparsa dei grandi predatori, istituzioni di aree protette seguite dal divieto di caccia ecc.), è arrivato il momento di prendere atto che la situazione è diventata insostenibile. Perché, se il termine sostenibilità significa “gestire una risorsa in modo da garantirne l’uso alle generazioni
future”, la conclusione è che la risorsa bosco, in casi di forte pressione alimentare da fauna selvatica, non ha futuro: né sotto il profilo ecologico né sotto quello economico.
A questo punto è necessario farsi una domanda: come si può risolvere il problema del sovraccarico degli ungulati selvatici? La questione può essere affrontata sotto varie angolature: scientifica, etica, politica.
Nel mondo scientifico non sono pochi a sostenere che la selvicoltura può svolgere un ruolo importante nella soluzione del problema. Ebbene, chi scrive appartiene alla categoria degli scettici. Premesso che 1) ai danni da ungulati selvatici non si pone rimedio solo con la riduzione della densità dei capi, 2) anche la selvicoltura può giocare un ruolo (favorendo quando possibile il bosco misto a rinnovazione naturale, regolando opportunamente l’ampiezza delle tagliate nonché l’estensione del loro perimetro, stimolando con le opportune cure colturali la diffusione di un piano erbaceo-arbustivo, valutando la disponibilità alimentare non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi, apponendo la ramaglia sulle ceppaie dopo il taglio dei cedui ecc.)… pensare che la selvicoltura possa essere determinante nella soluzione del problema degli ungulati selvatici equivale a pensare che una cura di vitamine (e sappiamo quanto siano importanti) possa essere un rimedio efficace contro una polmonite acuta.
Il ruolo della selvicoltura, detto in altre parole, è di creare condizioni idonee al mantenimento di un equilibrio, mentre la terapia d’impatto, necessaria in tutte le gravi patologie, non può che essere un abbattimento dei capi in eccesso, sulla base di ben congegnati piani di assestamento faunistico.
E qui interviene l’aspetto etico che, a mio parere, nell’opinione pubblica è strettamente contaminato da una miscela esplosiva di scarsa informazione e di emotività. Infatti, il principale ostacolo alla riduzione dei capi di ungulati selvatici è proprio rappresentato dal fatto che la cosa, per quanto necessaria alla funzionalità dei sistemi agro-forestali, da un lato disturba l’opinione pubblica (gli ambientalisti, ma non solo) che identifica nei selvatici la componente più rappresentativa della natura, dall’altro colpisce gli interessi di determinate categorie: come non ricordare che alcuni cacciatori sono interessati a conservare alte densità di selvaggina?
Di fatto, anche se è abbastanza ovvio che la caccia di selezione è necessaria per risolvere il problema, molte resistenze vengono opposte all’idea che il rimedio alla situazione anomala debba tradursi in una strage di animali. Paradosso notevole se si pensa che ogni giorno sulle nostre tavole arriva carne di manzo, vitello, maiale, agnello, pollo, tacchino e quant’altro, tutta carne che prima di essere ridotta in bistecche ha fatto parte di organismi che sono stati uccisi per la nostra alimentazione. Insomma, perché la mucca sì e il cervo no? Forse perché il cervo fa parte della wilderness? Suvvia, basterebbe ragionarci un attimo per capire che il problema è esattamente l’opposto: il cervo, quando è in eccesso, è la principale minaccia alla wilderness, visto che impedisce la rinnovazione dei boschi, cioè l’habitat di tanti altri selvatici (piante e animali), oltre che il luogo in cui gli uomini hanno ricavato uno spazio economico.
La verità è che, nell’opinione pubblica, manca la percezione esatta del problema, o meglio della sua dimensione: si fatica a capire che in molti casi abbattere gli ungulati selvatici non è un gioco o una gratuita cattiveria e nemmeno una forma di bieco cinismo, bensì una necessità. Personalmente confesso di avere un’istintiva simpatia per tutti gli animali, cervidi compresi, anche se ciò non m’impedisce di pensare che sia necessario riportarli a densità più vicine alla natura (il confine etico che non si può oltrepassare nei confronti degli animali è, a mio avviso, un altro: il maltrattamento, cioè ogni forma di violenza gratuita).
Le spiegazioni all’atteggiamento dell’opinione pubblica non mancano. L’Italia del secondo dopoguerra fu segnata dall’urbanizzazione, fenomeno che tuttora instilla in ognuno di noi, assieme a modelli di vita artificiosi, anticorpi che inducono a percepire la natura come un Eden lasciato alle spalle. Purtroppo,
alla crescita del sentimento non corrisponde un’adeguata crescita della conoscenza. In altre parole, il livello di educazione ambientale rimane scarso, mentre l’amore per la natura continua a rivestirsi di una dannosa irrazionalità.
Si aggiunga che, in Italia, gli aspetti naturalistici sono trattati dai media spesso in modo approssimativo, a volte addirittura errato: insomma, i mezzi d’informazione sono corresponsabili della situazione che s’è creata.
Le maggiori responsabilità, a mio avviso, spettano però al mondo politico, il cui compito dovrebbe essere quello di ricondurre la questione in un alveo razionale: fare sì che l’opinione pubblica prenda atto che la natura non è un insieme di cervi e caprioli, bensì una rete di relazioni funzionali che non ammettono anomalie spaventose come quelle cui stiamo assistendo. Se non è etico uccidere Bambi, lo è forse permettere la distruzione dei nostri boschi? Possibile che le istituzioni non riescano a rispondere a una domanda così elementare? Oppure a dire chiaramente che la natura che ci circonda non è poi così ricca di naturalità, e che dunque necessita, più che di un approccio emotivo, di una razionale gestione? Conosco personalmente proprietari di boschi, mortificati da una situazione incomprensibile per cui, dopo il taglio di un ceduo, non è permesso loro mandare una mucca al pascolo nel bosco (pena gravi sanzioni pecuniarie), mentre mandrie di cervi di straordinario appetito possono radere al suolo le ceppaie. È pur vero che in tal senso esistono indennizzi, ma non sono certo quelli a risolvere il problema.
Possibile non rendersi conto del rancore verso le istituzioni che situazioni del genere possono determinare?
A proposito, nel frattempo, a rendere meno insostenibile il problema ci pensano i bracconieri…
Il paradosso fa nascere una domanda finale, cui ognuno può fornire la propria risposta: se ad alleviare le dimensioni dei problemi sono necessarie pratiche illegali, non sarebbe forse più opportuno assumersi la responsabilità di scelte magari poco popolari ma indirizzate verso il bene della collettività?
Marco Paci
Docente di Selvicoltura presso
l’Università degli Studi di Firenze

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